Nuova scena italiana | |||
Gruppo di lavoro Masque
Teatro
Sempre dalla generosa terra di Romagna proviene il Gruppo
di Lavoro Masque Teatro. A pochi passi da Forlì il gruppo ha trasformato
un vecchio casale, il Ramo Rosso, in luogo abitativo e officina di esperimenti
scenografici che in estate diventa centro e foresteria del festival Crisalide,
fondato nel 1994. Il Masque nasce invece nel 1992 dalle intuizioni di
Catia Gatelli e Lorenzo Bazzocchi, lei sociologa lui ingegnere (autori
a registi di un gruppo nel quale sono confluite in seguito collaborazioni
di musicisti e videomaker), scrupolosi artefici di complesse macchine
della visione; di un «teatro delle architetture» che sonda e sviluppa
il concetto di plasticità in Appia a la metafisica dei paesaggi urbani
del dopoguerra. Un dialogo tra linguaggio filosofico e drammaturgia, sintesi
della ricerca nel Masque, dove 1'elemento scenografico ha una presenza
così determinante e uguale valore di un personaggio.
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Si procede, dunque, per scansioni e istantanee del pensiero, formalizzate in scena nella magmatica ostensione del corpo degli attori: un corpo dal carattere cyber che si può considerare il timbro figurativo degli spettacoli del gruppo e che sembrano accogliere la lezione di Kantor, come quando, secondo Franco Quadri, gli oggetti the parlano in diretta, senza affidarsi anche all'evocazione simbolica, [...] sono il ricettacolo della memoria trascritta, prima di ospitare una storia the si dà per se stessa e s'interrompe per restituire le visioni. | |||
È una memoria analitica e epidermica, indefinita e frammentata,
archetipo della psiche e di rituali collettivi, in un'unica tensione emotiva
che va dal sincretismo postindustriale al rave massificato. È la memoria
che non espone vincoli etici o politici ma li esalta individuando altri
riferimenti in cui scorgere «il fascino estetico e cognitivo dell'asimmetrico
a del dissonante»: una rivisitazione barocca che è prima di senso e poi
espositiva. Sono grandi e vorticose scenografie o, anche, gabbie‑abitazioni
all'interno delle quali lo spettatore si muove, scruta 1'altro, abita
la stessa materia concreta e mobile e lo stesso tempo dell'azione che
si rappresenta, in un dispositivo di reciproco voyeurismo the degenera
in una nuova utopia di opera d'arte animata e autofagocitante. Non è più
solo 1'installazione dove 1'oggetto dialoga con 1'umano, ma non è ancora
un apparato di elementi virtuali completo.
Quesa 'ibridazione tra organico, tecnologia e corpo larvale
giunge a compimento con lo spettacolo Seleniazesthai ‑Essere lunatico
del 1994, lettura tentacolare del Faust di Pessoa dove il protagonista
chiede 1'eternità in cambio di uno stato di immobilità perpetuo. L'azione
si svolge a ridosso, sopra e dentro un enorme albero cavo in vetroresina,
luogo della condanna e della consapevolezza, propaggine di bolgia dantesca
pronta a cambiare prospettiva e tessitura per via delle striature di colore
proiettate in sovrapposizione. Lì i corpi appaiono della stessa sostanza
dell'albero, materia nella materia che, come la ramificazione, si protrae
e sconfina ben oltre la struttura.
Precedono Seleniazesthai alcuni lavori orientati a cogliere
la metamorfosi non solo visiva dell'atto scenico: il modificarsi del ritmo,
dei suoni e del recitato è quel confine concettuale ed estetico, 1'itinerario
«intercodice» disegnato dall'interazione tra i linguaggi the diviene per
lo spettatore esperienza percettiva. Prigione detto Atlante (1992), chiude
un ciclo e apre definitivamente alla forma a alla poetica del gruppo.
Il bassorilievo michelangiolesco dello spettacolo è una grande parete
marmorea the si racconta attraverso il corpo e le azioni degli attori
che la abitano, corpi non più umani, cristallizzati nella simbiosi con
la scultura in una dissolvenza visiva che amplifica la meraviglia della
nostra percezione del tempo. Un’ eguale definizione del tempo tornerà
a segnare lo spettacolo esperimento condotto nella cava di San Giorgio
di Valpolicella nel 1996, La montagna dei segni. Così lo ricorda il gruppo:
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Per giorni interi leggemmo su quelle enormi pareti istoriate ideogrammi di una strana ed inconsueta civiltà, di un mondo che ci sembrava di cogliere solo nella sua apparenza minerale, inorganica: la pietra. [...]. Volevamo trovare un piano di comunicazione con quella pietra, col corpo inorganico che ci sovrastava." Ma èl'opera che cambia direzione, invertendo la concezione dello spazio teatrale prefigurata sino ad allona, è Coefficiente di fragilità (1994), un vero a proprio labirinto di stanze, cellette, orifizi, specchi riflessi dove vengono calate le diverse situazioni o accadimenti che organizzano la rappresentazione in una vera a propria sfida allo straripamento del tempo o, per dirla con Raimondo Guarino: | |||
Coefficiente di fragilità (1994) | |||
Prima
stanza: «il Re a la Regina attraversati da nudi veloci
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- no, non sono Faust, non mi serve - | |||
«libertà, libertà di indifferenza»
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"Lo sguardo non può cercare la sua durata che nell'accadimento progressivo di spazi contrastanti, comparabili o incongrui, e nel tempo in cui lo spettatore viene ripetutamente invitato e sottratto al consumo della percezione." | |||
L'ambiente si espone in quanto strumento della visione ma
allo stesso tempo accoglie e condiziona la visione stessa del pubblico. L'enorme stanza di Coeffiecente ripartita in tanti ambienti
e camminamenti ripropone in scala 1'opera di Duchamp La sposa messa
a nudo dai suoi scapoli, anche, ermetica composizione plastica per
significare nella sua non‑significazione una trasposizione nel
teatro del concetto di pittura «retinica». Congegno, lo definisce
Octavio Paz riferendosi a Duchamp, di «impressioni, sensazioni, secrezioni,
eiaculazioni» che assumono valore artistico e si offrono a una posizione
critica: un procedimento
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Nur Mut ‑ La passeggiata dello Schizo (1996) | |||
figure liberate dalle pulsioni
erotiche della «triangolazione edipica» mentre si rivelano nelle
loro parti organiche e altre ormai compiutamente artificiali. L'attore‑macchina
di Nur mut, incarnando i dettami dell'Antiedipo di Deleuze in un
autismo delirante tutto amletico nell'essere padre e figlio di se
stesso, è un personaggio‑funzione, femmina e maschio di un
corpo privato della parola, pronto ad assolvere al compito di mediatore
tra il flusso produttivo dei feti sfornati da una lavatrice‑ruota
(deviante metafora di una incubatrice‑utero the partorisce
col ritmo assillante di un ingranaggio da fabbrica), al rito sempre
uguale di una prova da laboratorio scientifico. Lo spettacolo ancora
imponente e prismatico nega lo spettatore nella forma di un'installazione
recitante the ingloba carrucole, ascensori e sedie anatomiche, e
procede con moto circolare su una base sonora ipnotica costante,
infranta solo nel finale quando viene offerto al pubblico un bambolotto,
la resa dell'uomo al «fallo bionico».
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In continuità con la macchina procreatrice di Nur mut è Eva futura (1999), ispirato al romanzo di Villiers de l'Isle Adam e approdo del gruppo all'idea paradossale della perfezione dell'inumano (inteso anche come incognita di un'esistenza non regolata dalla morale) che in nuce lo Schizo faceva intuire. Il flusso di rumori atoni accompagnano un’ altra iniziazione, più esoterica e immaginifica, quella di un fantoccio simbolo della libertà del pensiero nel suo essere «enunciato autoreferenziale del linguaggio». | |||
Il microcosmo di Eva futura sta in qualche modo a Nur mut per la stimolazione a una sensibilità fredda che genera creature catalettiche, per assonanze visive di una scena autarchica, fatta di camminamenti sospesi, passerelle e congegni dove tutto si muove direttamente dall'interno, e per il ritorno a una architettura di intelaiature in ferro che culminano in letti da ospedale psichiatrico. Ma il nuovo lavoro si differenzia per una vena di autoironia e per il debutto di una vocalità pulita, umana, che non fa uso di tecnologie e sembra volersi rapportare per la prima volta con lo spettatore. Il passaggio tra i due è affidato ai vapori della sposa (1998), spettacolo che coglie una atmosfera di fondo comune a entrambi gli allestimenti, da un lato portando a termine l'evoluzione della figura e dall'altro anticipando il rapporto tra attore virtuale e attore reale. | |||
Ancora un personaggio icona ne tiene le fila, un pretesto di cui si serve il Masque per parlare del dubbio come concetto esistenziale esteso alla scena, un discorso del teatro sul teatro attraverso il sistema barocco di illusione svelata e the ormai da Coefciente a Eva futura continua a indagare. Protagonista è la Saint Ange di La philosophie dans le boudoir di Sade the dagli otto monitor posizionati alle pareti di uno spazio ovale invita gli spettatori a sedersi e a seguirla in un viaggio di piacere tutto mentale. Un’ arena della sensualità, un «mondo unitario» o corpo unico dove non esiste frattura fra il corpo dell'attore, la materia e 1'immagine virtuale: il boudoir sta a significare la continua sottrazione di senso a « 1'impossibilità a stabilire la veridicità della realtà» rispetto all'evento stesso. Al Cupido in carne, ossa e stantuffi idraulici corrisponde diametralmente opposto un San Sebastiano cristologico sistemato dentro una nicchia the ruota su se stessa lentamente. Saint Ange, come Zenone, si fa carico dell'assioma a cui non c'è risposta: «Se sarà dimostrata la mia esistenza forse sarà dimostrata anche la vostra»..Gli spettatori ogni volta pur sapendo che non c'è risposta a questa domanda, sono complici del gioco perché il dubbio non può avere soluzione». | |||
Masque continua la sua esplorazione sulla natura e la
misura del tempo e dello spazio facendo tappa all'Interzona di Verona
con Improbabili previsioni del tempo (1999).
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